Le porte di Isdor
Claudia Paternoster
Isdor
è un luogo apparentemente lontano dal nostro mondo, ma vicino all’essenza di
ogni cosa; qui dimorano esseri incapaci di mentire e di odiare, anche se gli
uomini tentano di oscurare la verità alla ricerca di un potere dimenticato e
pericoloso. Aron, un giovane come tanti, si troverà coinvolto in un viaggio che
lo trascinerà al centro di questa ricerca, fino alle origini della sua
misteriosa identità. Esiste una forza che può salvare o distruggere, guarire o
uccidere, e il futuro di Isdor dipenderà dalla realtà a cui Aron, in bilico tra
due mondi, sceglierà di appartenere.
I confini di Isdor
Claudia Paternoster
Il
viaggio di Aron prosegue tra il suo mondo e Isdor, ma tutto ciò che pensa di
conoscere viene rimesso in discussione: le scelte che dovrà compiere porteranno
con sé un peso, o una soluzione, da cui non potrà più tornare indietro. C’è
qualcuno da ritrovare, un male da combattere, un segreto da svelare; strade
inaspettate si apriranno nel suo passato, nuovi incontri e nuove scoperte lo
porteranno alla verità. Così il suo viaggio non sarà soltanto verso ignoti
confini da raggiungere, ma condurrà Aron dentro la profondità di sé, fino al
compimento del proprio destino.
https://www.publistampa.com/edizioni/prodotto/i-confini-di-isdor-2/
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L'ATTESA
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L'ATTESA
Claudia Paternoster
Terzo premio al concorso: "Ogni fine è un inizio"
Mezzolombardo, 1 agosto 2012
Dove
finisce il giorno
quando
un pensiero grigio lo spegne
fino
al precipitare stridulo
di
un’indesiderata notte
Dove
comincia quella pace oscura
quando
il buio è un rombo muto
vuoto
di stelle e sogni
cercando
un orizzonte ad est
L’inizio
non ritorna
né
si chiude la fine
solo
l’attesa rimane
ad
abbracciare ogni giorno.
LA PORTA SENZA MANIGLIA
Claudia Paternoster
Terzo premio al concorso "Il ritorno" - XXII edizione del Premio Letterario Nazionale
“Trichiana - Paese del Libro”, Trichiana (BL) 9 giugno 2012
“Trichiana - Paese del Libro”, Trichiana (BL) 9 giugno 2012
Non me lo ricordavo così imponente questo edificio. Forse l’unica cosa che ho registrato nella mia memoria è stato il corridoio, e niente altro; un lungo corridoio dipinto di un verde sbiadito e lucido, e le mie scarpe blu con il laccetto che ci camminavano dentro. Ma in fondo al viale avvizzito dall’inverno, l’ospedale ha alte finestre, un atrio luminoso, larghe scale colonnate che non rammentavo. Eppure mi sento come se qui ci avessi vissuto.
“Prego, da questa parte” mi indica una voce indifferente.
La seguo, i tacchi rumoreggiano sul pavimento di graniglia velato dall’abbandono. “La clinica è definitivamente chiusa da poco” mi spiega l’impiegata, “gli ultimi pazienti sono stati trasferiti da qualche mese”. Eppure tutto qui ha già uno squallido odore di vecchi addii.
Ce ne hanno messo di tempo, però. Era il 13 maggio 1978 quando la legge ha stabilito nuove normative sul ricovero obbligatorio, ma ci sono voluti quasi vent’anni perché queste specie di carceri chiudessero del tutto. Era il 1978, ma lei non aveva resistito così tanto, e il vuoto era venuto a prenderla più di dieci anni prima.
Passo distratta davanti ad una porta chiusa, mentre l’impiegata mi conduce verso un ufficio dismesso; il mio cuore fa un balzo, vertiginoso, lancinante, ed io ritorno indietro di quasi trent’anni, in un ricordo spietato e nitido.
Sento un ruggito umano provenire dal fondo del corridoio. Stringo la mano del mio papà, tremo. Mi guardo le scarpe per non ascoltare, per non vedere, ma quell’urlo mi rimane dentro, e scava paure prolungate nella mia piccola memoria. Ho sei anni, e con l’ingenuità pulita di una bambina capisco perfettamente che posto è quello. Che mi ci hanno portata a fare?
Papà mi lascia la mano, mi dice di aspettare. C’è anche la zia, che si china vicino a me e cerca di abbracciarmi, come per proteggermi, ma io la scanso infastidita. E alzo gli occhi: fisso la porta bianca, e comprendo che al di là c’è una verità che nessuno mi dice, un mondo nascosto nei sottintesi e nelle mezze frasi di mio padre, un luogo cupo di cose non dette che serpeggia la sera sul tavolo a cena, un’assenza che oscura gli occhi di tutti quelli che mi guardano compassionevoli, senza capire che io li vedo. Fisso la porta e mi gelo. Non sento la voce della zia, le gambe mi si irrigidiscono e il respiro si affanna nei piccoli polmoni che non reggono un’ansia troppo adulta per una bambina. Fisso la porta e vedo la maniglia immobile e luccicante, e penso che basta aggrapparmi e spingerla per far uscire quel segreto che vomita bugie sulla mia fragile vita. Ma le gambe non rispondono, sembrano diventate di legno; il corridoio si allunga all’infinito e nei miei occhi spaventati cala il buio, mentre l’ultima cosa che vedo è la mia mano inutilmente protesa.
Mi fermo e la riconosco. Troppe volte nei miei incubi ho sognato di aprire quella porta, ed ora è qui davanti. Agisco d’istinto, senza pensare; mi avvicino, ci appoggio la mano sudata, il cuore batte frenetico e sento che in esso si sta riversando tutto ciò che mi è mancato.
Apro. Nella penombra osservo il pavimento chiaro, il letto in mezzo alla stanza, un quadretto sbiadito alla parete, un tavolino dagli spigoli arrotondati, la finestra chiusa dall’apertura stretta, in alto, come il finestrino di un treno, e fuori i rami spogli di un albero che copre la visuale.
“Signora Paola?” sento chiamare.
Una rapida occhiata, e mi basta; mi affretto ad uscire, fingo disinteresse lasciando la porta spalancata, e raggiungo l’impiegata.
“Queste sono le cose che abbiamo recuperato. Se mi firma il modulo, per favore. Qui, grazie. Lei è la figlia?”
“Sì” rispondo, sovraccarica di emozioni stipate sull’anima, mentre scribacchio rapidamente il mio nome.
Poi mi manca l’aria, come quel giorno. Sono passati più di trent’anni, ma la piena dei ricordi sta per superare gli argini; afferro la voluminosa busta che l’impiegata mi porge, saluto freddamente e mi allontano, quasi correndo, lungo il corridoio semibuio che sembra non finire mai.
Il treno è vuoto; mi apparto in un vagone, assaporo il tepore del riscaldamento in funzione, cerco di riprendere la calma. Apro la busta, poche cianfrusaglie e un quaderno dalla copertina grigia. Le mani mi tremano; apro il quaderno, e ci entro dentro.
8 aprile 1962
Non c’è la maniglia. Non capisco perché mi abbiano accompagnata qui, in una stanza senza maniglia sulla porta. Luigi ha detto che torna subito, mi dice di non preoccuparmi, che va tutto bene. Ma non ci stavo male a casa, io. Certo, l’altra notte che l’ho sentito arrivare, con quel freddo strano, ho inciampato sulle scale, e Paola mi è scivolata giù. Ma non era per lei, volevo solo uscire a vedere il cielo, perché mi sembrava che non ci fosse più. Il cielo; l’altra notte non c’era più. Non so chi l’aveva portato via, so solo che la finestra era scura e fuori c’era lui, il vuoto. Sono scesa per controllare, ecco; Paola piangeva, volevo solo farle vedere che era tutto a posto, mica sapevo che il vuoto era entrato in casa e si era portato via anche la luce delle scale.
Qui c’è una finestra larga, ma il vetro non si apre; c’è un’apertura solo in alto, stretta, come sui finestrini del treno. Forse Luigi mi vuole fare una sorpresa? Forse sono su un treno, e il viaggio sta per cominciare. Sono qua seduta vicino alla finestra, adesso guardo quando parte. Fuori il cielo c’è; va tutto bene, come mi ha detto Luigi. Ma qui davanti c’è un albero enorme, le foglie arrivano fin quasi sui vetri, e fa ombra sotto, e il cielo si vede solo a strappi tra i rami; non mi piace. Mi aspetto di partire. Solo non so perché Paola non è venuta anche lei; Giannina dice che voleva stare un po’ con la zia, che ha insistito tanto e viene da me domani.
L’ho portata fuori l’altra notte, la mia Paola, e le ho fatto vedere che c’era un stella, e voleva dire che non l’avevano ancora svuotato il cielo. Ce n’era ancora, in un angolino, era lì appeso a quella stella bassa. Paola piangeva, aveva le spalle che si scuotevano di scatto, tremava povera la mia bambina, senza voce; ma io le ho giurato che il cielo c’era ancora tutto, e che non doveva preoccuparsi.
Non so quando parte il treno. Luigi verrà, e mi dirà dove andiamo, e mi porterà Paola, e finalmente partiremo insieme.
12 aprile 1962
Erano vestiti di bianco. Non capivo cosa dicevano, mi hanno visitato. Mi guardavano gli occhi, e la schiena, non so che volevano. Uno mi ha fatto domande, mi ha chiesto perché ti ho buttata dalle scale. Non so cosa dicono, le loro parole sono complicate. Io non ti ho buttata dalle scale, Paola, tu lo sai, tu hai visto. Ho il sangue gelato, e nella testa sento la voce di quello con gli occhiali, che dice “procedura penale”. Procedura penale: pensano che sono una criminale? Cos’è, una prigione qui? Allora ho urlato. Ho gridato che io qui non ci voglio stare, che il vuoto arriverà anche qui e che non era colpa mia se quella notte si era divorato il cielo. Ma non ascoltavano, non mi hanno ascoltato. Paola, diglielo tu che ti voglio bene, diglielo tu che non sono stata io. Mi vogliono tenere qui: ho paura. Diglielo al papà che non ti ho fatto del male, diglielo che anche tu hai visto il cielo sparire e rimanere aggrappato a quell’ultima stella.
luglio 1962
Sto a guardare la porta, tutto il tempo. Non so che giorno è; penso che sia estate, perché la luce sul vetro è calda, e le lenzuola sono sudate. Ma la porta non ha la maniglia; così, non posso nemmeno assaporare il momento in cui dovrei vederla piegarsi per dirmi che arriva qualcuno.
C’è il letto in mezzo alla stanza, un tavolino dai bordi rotondi a fianco della finestra, la sedia appoggiata vicino, un armadio azzurro di ferro; questo la maniglia ce l’ha, è un pomello scolorito con lo smalto consumato. Sopra il letto c’è un quadretto con la cornice sottile di legno chiaro, senza vetro; c’è dentro un prato un po’ secco, con un profilo di montagne sbiadite sullo sfondo e due nuvole, una grande e una piccola. Vedi? Siamo noi, Paola; la nuvoletta bianca che sta dietro alla mamma, ed è lì che ti immagino, con me.
Ma Paola non viene. Forse è arrabbiata con me. Che le avrò fatto? Ha solo cinque anni, mica è come i grandi, che se la prendono per niente. No, deve essere qualcos’altro. Forse è malata? Luigi mi ha detto che me la porta, ma non so più da quanto tempo aspetto. Se ci fosse quella stupida maniglia andrei a cercarla, correrei fuori, fino a raggiungerla. Ma forse anche dall’altra parte manca la maniglia, così lei tutte le volte che passa non può entrare, e magari pensa che sia io a non aprirle.
Giannina è venuta qui, ma non sembrava lei; non mi guardava in faccia, così ho pensato che non sta bene, che non mi riconosce, che non si ricorda di quando ci addormentavamo la sera vicine e ci raccontavamo storie che facevano paura. È un peccato però, che se ne sia dimenticata; erano stati giorni belli quelli, con la mia sorellina. Mi ha detto che Paola è all’asilo, che si diverte tanto, e fa così tante cose che non ha mai il tempo di passare da me. Domani, mi ha detto Giannina, domani veniamo con Paola. Ma quando è domani?
La sera il vuoto entra dalla fessura della finestra, avvolge le gambe del letto, striscia sul pavimento e io non posso scendere dal materasso, altrimenti ci cado dentro. L’ho detto all’infermiera, che c’è una fessura, che lui viene da fuori, e in certe notti strappa via le foglie dell’albero, le inghiotte, e non si vede più niente. Ma qui tutti dormono, non se ne accorgono; solo io vedo quello che succede e nessuno capisce che in breve tempo il vuoto si prenderà tutto, anche me.
gennaio 1963
Forse se lo scrivo qualcuno capirà che non sto mentendo; adesso lo so perché mi hanno messa qui. Pensano che sia matta; ma la follia sta lì fuori, tra tutti quegli occhi che non guardano, e non si accorgono di esserne avvolti. Fanno finta di niente, e non sanno che sta arrivando. Se non te ne accorgi ti lascia vivere; ma se capisci, allora ti divora. Ti divora in fretta, perché così non lo dici a nessuno quello che hai visto. E il vuoto entra dagli occhi e scava i pensieri, raschia i ricordi, anestetizza il dolore, e loro non se ne rendono conto.
Mi hanno tolto la maniglia per non farmi uscire, ma hanno tolto la maniglia anche da fuori, per non far entrare Paola. Adesso lo so, perché non ci credo che lei non vuole venire da me. Non glielo permettono, ecco tutto. Luigi mi guarda con gli occhi pietosi, e non lo sopporto più, perché vedo il vuoto attorcigliato intorno alle sue dita, e lui non se ne accorge. Ho paura che Paola sia stata già inghiottita; per questo non mi parlano più di lei, e se chiedo si girano, non mi guardano, cambiano discorso, e hanno quegli occhi vuoti anche loro, patetici, poi se ne vanno, scendono da questo vagone e non si accorgono che è sempre fermo, che non è mai partito.
L’albero è spoglio, coperto di bruma. Lo spazio fuori è stato mangiato: prima le foglie, poi quel grigio viscido e appiccicoso si è portato via il resto. Sta arrivando; la notte mi rannicchio sulla testa del letto, ma lui striscia e sale sulle coperte, cerca di entrarmi dagli occhi, come fa con tutti, ma io non ci casco, perché l’ho riconosciuto. Il vuoto lo sa, per questo una di queste notti verrà ad afferrarmi.
26 febbraio 1963
Bambina mia, oggi compi sei anni. Non so se fuori è il 26 febbraio, l’infermiera mi ha detto così, ma io non ci credo più perché ho visto i fili neri nei suoi occhi, e ho capito che il vuoto aveva preso anche lei. Non so se è passato un giorno o un anno da quando mi sei scivolata giù dalle scale, ma io mi ricordo che piangevi tanto e dopo mi hai abbracciato forte come non avevi mai fatto. Ecco, io quell’abbraccio ce l’ho sempre qui addosso. È diventato sempre più forte e più avvolgente, come uno scialle, e me lo tengo stretto perché mi protegge; ma ogni notte ne vorrei uno uguale, e guardo quella porta senza maniglia, guardo la porta e aspetto che ti lascino entrare, perché con un altro di quegli abbracci mi salveresti. Ma tu non vieni. Mi hanno detto che oggi è il 26 febbraio. Non vieni a prenderti gli auguri della tua mamma? Sei lì fuori, Paola? Bussa, così almeno so che ci sei.
ottobre 1963
Guardo la porta che non si apre mai. Ci sono due che parlano, giù in fondo al letto, e mi danno fastidio. Non sento le cose che dicono, non le capisco; le loro voci mi arrivano smorzate, parlano una lingua che mi è estranea. Sono attaccata a questi fili, c’è un ago nel polso e il braccio è bloccato.
Ieri l’infermiera giovane ha messo il piede nel vuoto, qui in mezzo al pavimento. Ho cercato di salvarla; mi sono buttata su di lei, così lui non l’ha presa, ma sfiorata appena, ed io ero contenta e ho cercato di dirglielo. Poi però loro mi hanno preso, e il dottore ha puntato il suo dito, ha affondato il suo ago, e poi niente. Mi sono trovata legata, e non riesco nemmeno a scrivere adesso. Ma il pavimento è di nuovo bianco; l’hanno visto, l’hanno spazzato via quel buco di vuoto, altrimenti ci sarebbero finiti tutti dentro.
1964
Luigi non è venuto più. Non capisce niente, lui; volevo strappargli via dagli occhi quei fili neri, ma lui si è arrabbiato, e poi si è messo le mani sulla testa e piangeva, e batteva sulla porta perché gli aprissero; sono sicura che fuori c’era Paola, ma non l’hanno lasciata passare. Meglio così bambina mia, meglio così, altrimenti ti raccontano cose brutte, e ti dicono che sono cattiva; vieni tu da sola un giorno, che così possiamo parlare e tu mi capirai. Ho sempre sonno, sai? Ma nel sonno c’è un altro mondo, e si è leggeri, e non ci sono più quelle medicine e l’ago del dottore e la cinghia sui polsi. Qualche volta ci passi tu nel mio sonno, ma non cresci mai; sei bella, e corri sempre, ed io ti sto dietro senza raggiungerti. Così non faccio che dormire ormai, perché lì posso ancora aspettarti. Verrai?
Notte.
Ho le gambe che non rispondono più. Le chiamo, le sveglio, ma loro niente, non mi sentono. È successo in una notte come questa, non so quale perché sono tutte uguali, ma il vuoto mi ha raggiunto e si è attorcigliato intorno ai piedi, poi su per le ginocchia, gelido, mortale. Ho gridato; l’infermiera è arrivata, ma mi ha dato qualcosa e non ha capito niente di quello che succedeva.
Fuori il cielo non c’è più. Anche l’ultimo pezzetto se ne è andato, divorato dal vuoto. Nemmeno il pavimento c’è più. Ed io, che mi spengo qui dentro, guardo la porta e spero solo che tu, bambina mia, tu non venga mai perché cadresti giù.
Oggi.
C’è una luce opaca, tutto è immobile e tranquillo. Non ho più paura. È una tenebra bianca quella che ho davanti, e mi sembra un posto migliore. Ora che il vuoto si è preso tutto, finalmente l’ho sconfitto: non ha più niente da strapparmi via. Paola, adesso puoi entrare.
Lo leggo in fretta, avidamente, trattenendo a fatica le lacrime, freno i singhiozzi per non esplodere davanti alle righe sbieche, tristi di rabbia e rassegnazione, alcune scavate sulla carta ed altre scolorite ed incerte, dolorose come la verità negata, brucianti come il rancore inutile, tremendamente reali.
Salgono altre persone, il treno parte. Un uomo in giacca e cravatta mi si siede di fronte; sigillo l’impeto che mi attraversa l’animo e guardo fuori, gli occhi asciutti. Una ragazzina occupa il posto di fianco al mio, ed io ne sento la presenza, senza vederla.
Ma il cuore è gonfio di rabbia, accelera sotto la spinta del dolore, chiudo gli occhi per non sentirlo e scivolo in un vuoto sordo che conosco bene.
“Signora.. il biglietto, signora”.
La voce mi giunge lontana, ma secca e improvvisa; spezza il vetro dell’oblio, mi attraversa i sogni come un brivido freddo. Alzo gli occhi, ci metto un po’ a mettere a fuoco la figura corpulenta del bigliettaio, in piedi a gambe larghe nello stretto corridoio del treno, la faccia assente che guarda altrove.
“Scusi, mi ero addormentata” farfuglio; lui nemmeno sente. Cerco nelle tasche del cappotto con la mano destra, trovo il biglietto stropicciato e lo consegno per l’impietosa foratura. Seguo intontita il clac metallico, il biglietto che scivola nella mia mano, la divisa blu che si allontana ondeggiante nel treno. Stringo gli occhi, tiro un sospiro pesante, poi mi accorgo che ho altre persone intorno, accanto, davanti; mi trattengo e ricompongo il mio corpo sul sedile, drizzando la schiena, vergognandomi un poco di quell’abbandono in presenza di estranei.
La mano sinistra è appoggiata sulle pagine del quaderno, il quaderno incollato sulle ginocchia; appena me ne rendo conto sussulto leggermente, scorro lo sguardo sul tipo che ho di fronte e sulla ragazzotta al mio fianco, cercando di capire se sanno qualcosa, se hanno sbirciato le righe storte tracciate in blu, se hanno letto qualche parola. Nessuno dei due mi nota, lui catturato dal suo notebook, lei assorta nel ronzio degli auricolari.
Chiudo con delicatezza il quaderno sgualcito; alcune pagine sono staccate e i fogli sporgono consunti e ingialliti dal cartoncino grigio. La copertina è logora e macchiata, gli angoli piegati, e nel rettangolo anonimo spalancato nel mezzo non c’è scritto nessun nome. Mi sale un nodo alla gola. Gli occhi si appannano; guardo fuori distrattamente, per non ferirmi negli sguardi altrui. I paesaggi scorrono dal finestrino, si appoggiano ogni tanto su qualche stazione, ma poi ripartono; non è come dalla finestra della stanza dove l’hanno rinchiusa, in quell’ospedale che chiamavano “casa di cura per alienati”, dove i treni non partivano mai.
Ma lì dentro nessuno ti ha spiegato come combatterlo quel vuoto, mamma; eppure si poteva. Li vedo anch’io quei fili neri attorcigliati alle dita delle persone, fin dentro gli occhi; ma so come spezzarli, e non fanno più paura, mamma.
Io sono rimasta fuori da quella porta, sempre. Non lo sapevo dov’eri, altrimenti ti avrei salvata; anche se ero solo una bambina, ci sarei riuscita.
Apro il quaderno; questo mi è rimasto di te, mamma. Rileggo ogni riga, osservo ogni tratto, inghiotto ogni parola, come se questo potesse ridarmi un briciolo della tua presenza. Torno davanti a quella porta, e la apro. Torno da te, e ti abbraccio.
LA SFIDA DELL'ALBA
Claudia Paternoster
racconto segnalato al concorso "Un attimo di felicità" - Premio Letterario Giacomo Zanella
Monticello Conte Otto, Vicenza - 14 aprile 2012
I suoi gli avevano proibito di uscire dall’albergo da solo; ma fin dal primo giorno della villeggiatura in quel noioso paesino di montagna, Andrea era inquieto e nervoso. Ogni mattina usciva sul balcone: da lì vedeva un picco di roccia grigia, spoglio, che incombeva sulla vallata. Il sole gli sorgeva da dietro; c’era un attimo in cui sfiorava la cima, la accarezzava, la circondava con un alone tremolante e dorato, poi tagliava il cielo con la sua luce abbacinante, rompeva gli argini del profilo blu e non potevi più guardarlo. A quel punto i raggi allagavano il bosco ai piedi della rupe raggiungendo il paese, penetravano fra le case allungandosi sui selciati e strappando all’ombra il brivido della notte.
Prima che arrivasse il sole a bruciare gli occhi e dominare le ombre, nel momento stesso in cui la roccia si incorniciava di luce, ogni mattino Andrea osservava rabbuiato quell’attimo con un solo desiderio: essere là, sulla cima del picco, sull’orlo del dirupo, a sfidare quel sole così sfacciato e indifferente, ad affrontare per primo quella luce che massacrava ogni banale grigiore e mostrava finalmente il limite di ogni ombra.
Ma lui non poteva uscire. Tutto per colpa di quella stupida storia. Era successo poco prima della fine della scuola; Andrea, come il suo solito, aveva colpito dove meglio si poteva trionfare, insultando chi meglio si lasciava ferire, e Daniele era il più facile da sottomettere. Ma quella volta la prof aveva visto, e Danielino non aveva saputo starsene muto; piagnucolante, il moccio al naso, aveva indicato con la mano tremante la faccia menefreghista di Andrea. Così era seguito tutto il resto: la sospensione, le minacce ridicole della mamma, le inutili prese di posizione di papà.
Poi i rimproveri erano stati come sempre fasulli, i toni velatamente comprensivi, e il cellulare glielo avevano lasciato lo stesso, e le blande punizioni lo avevano appena sfiorato. Sapeva come lavorarseli i suoi genitori, e dopo una prima debole sfuriata tutto era tornato sotto il suo controllo.
Così, gli ultimi giorni a scuola era ricominciata la sua personale guerra; un lavoro quotidiano, preciso. Ci voleva esperienza e determinazione per mantenere il ruolo del più temuto della classe, e lui ne era uscito ancora più forte, i compagni più scafati che lo spalleggiavano, i più fragili che lo evitavano più di prima.
Eppure qui, in questa noia di vacanza, la storia era rispuntata; suo padre, una mattina, lo aveva visto al balcone, intento a guardare la rocca incastonata nel bosco, quell’attimo prima che il sole gli sorgesse da dietro, e chissà come aveva capito, e in un discorso assolutamente fuori luogo gli aveva detto chiaro chiaro che lassù non ci si poteva arrivare, che a tredici anni non si mettesse già in mente strane idee, che di guai ne aveva già combinati abbastanza.
Ma ogni giorno quel picco, misteriosamente, chiamava Andrea. Era come se non potesse farne a meno, come se di fronte a quella luce che irrompeva sfrontata il ragazzo si sentisse ferito; nasceva così in lui un’inquietudine che, con l’immaginazione, lo portava lassù, a sfidare l’alba per sentirsi ancora il più forte.
Fu così che un mattino, silenziosamente, scivolò fuori dalla stanza mentre i suoi dormivano; era molto presto e il cielo era ancora intriso di notte, con qualche stella che luccicava insistente. I genitori erano rientrati tardi e Andrea sapeva che prima delle nove non si sarebbero alzati; c’era il tempo sufficiente per andare e tornare.
Aveva studiato il percorso da giorni, gettando occhiate distratte su una cartina sgualcita che suo padre si ostinava ad aprire senza mai usare davvero. La portineria dell’albergo era deserta; corse fuori, uscì dal paese, attraversò il ponte pedonale e prese la strada forestale che, dal balcone, vedeva salire verso il bosco. In dieci minuti era già nel folto degli abeti.
Il cielo si andava facendo rapidamente chiaro; non c’era molto tempo. La strada finiva, si faceva sentiero, si inerpicava a fatica fra i tronchi scuri e poi più niente, c’era solo terra scivolosa e radici e odore penetrante di muschio, ma Andrea non si fermava; piantava le mani nel terreno scivolando sulle foglie fradice, scattava con le gambe sul suolo accidentato e ripido, con l’unico obiettivo di arrivare in cima prima del sole. Doveva arrivare in tempo, o sarebbe stato tutto inutile.
Raggiunse una radura, e in cima ad essa riconobbe la roccia spellata del picco; senza più fiato, corse sul cocuzzolo di pietra, si piantò sull’orlo del dirupo, orgoglioso, gettò giù un’occhiata sprezzante verso il paesucolo, e si voltò verso est.
C’era una cima lontana, imponente e salda davanti a lui. Da giù non si vedeva, il picco la nascondeva; Andrea vide che il sole la incorniciava di luce e la incoronava come una regina. Il cuore accelerò il battito, e una furiosa angoscia gli salì dall’animo: aveva perso. Non era sopra il mondo, non era il primo, non era il più forte; non lo era stato mai. Il sole uscì dal bordo dorato del cielo, e lo investì. Respirò a pieni polmoni, mentre la luce lo travolgeva e lo obbligava a chiudere gli occhi, lo faceva barcollare sull’orlo del precipizio fino a farlo crollare in ginocchio, esausto nella tensione continua di apparire ciò che non era.
E fu in quel momento che capì. Aveva sempre finto di essere il migliore: lì si trovò ad essere semplicemente un ragazzo solo, davanti a ciò che non avrebbe mai potuto sottomettere. Si sentì libero come non lo era mai stato; libero di sbagliare, libero di essere, libero di piangere, ed era perfetto. Il cuore si svuotò, il respiro si calmò; niente più pressione sulle sue parole, né calcolo sui suoi gesti, niente più paura di sembrare debole, né bisogno di tenere in pugno il suo pubblico adorante.
Non ci si poteva nascondere di fronte a quel momento, e le lacrime scesero sulle sue guance fino a raggiungere gli angoli della bocca piegata in un insolito sorriso; non sapeva quanto sarebbe durato, ma in quell’attimo, finalmente, seppe di essere felice.
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IL RICAMO
Claudia Paternoster
Primo premio al 3° Concorso Trentino "Immagini di sollievo" - "La Speranza".
Fondazione Hospice Trentino Onlus - 8 ottobre 2011
Eccoli qua, tutti in fila, vicini. Non mi sono mai piaciuti i funerali, però devo ammettere che questo è diverso: finalmente ci siamo ritrovati tutti insieme, una volta tanto. Abbiamo messo da parte gli impegni, il lavoro, il commercialista, e quella scadenza che non poteva proprio aspettare… e invece oggi aspetta, eccome. Oggi ci siamo fermati tutti.
Guardali lì, tutti i miei nipoti seduti uno accanto all’altro; in fondo so ben poco delle loro vite, di quello che amano, di quello che soffrono. Ma i funerali servono anche a questo, no? A prendere un po’ di sana consapevolezza su cosa vale davvero, e a capire che c’è ben poco da rimandare a domani. Appena finita la funzione, spente le candele e portati via i fiori dal sagrato, devo prendermi il tempo di salutarli, stare un po’ con loro, chiedere come va.
Me li ricordo tutti da bambini; sgattaiolavano attorno al tavolo della mia enorme cucina, o si lasciavano coccolare dal fuoco della stufa, sulla panca verniciata di celeste. E per ognuno avevo una storia da raccontare, un segreto da svelare, un sogno da decifrare. C’erano certe domeniche che attorno a quel tavolo erano una decina a rincorrersi; si sparpagliavano nei solai, si rifugiavano nello stanzino dei conigli o si nascondevano nel buio della legnaia, ed era una festa la casa, si faceva più grande e più calda per abbracciarli tutti. Poi sono cresciuti, ed io sono invecchiata.
Eccoli là, ora: tutti uomini e donne, genitori, artigiani, segretarie, imprenditori, entrati in cucina gattonando e usciti con la cravatta o con i tacchi. Li guardo, e forse mi son persa qualche storia per strada; però li ho sentiti là fuori, mentre si salutavano e si scambiavano abbracci, e pur nella mestizia del momento ho colto i loro resoconti, in un rapido e sommesso contraccambio, prima di entrare nel silenzio della chiesa, fatto di echi e di incenso.
Ma ora basta, sta per cominciare la funzione. Volevo sedermi vicino ai miei fratelli, ma il banco era già tutto occupato; pazienza, me ne starò qui a lato. Guardali; raccolti, silenziosi, zittiti dalla messa. Me li ricordo quando si mettevano a giocare a carte, e urlavano come se litigassero, battevano i pugni sul tavolo e i bicchieri saltellavano sulla tovaglia; poi, come se niente fosse, dopo una fila di insulti, ridevano, si davano pacche sulle spalle e ricominciavano il gioco.
L’eco a due voci del coro sale da dietro l’altare. Mi volto a guardare la gente che gremisce la chiesa: li conosco tutti, e non manca nessuno.
Nel mio lungo periodo all’ospedale, quando il dolore finalmente si è placato, li ho ritrovati, ed era come se fossimo ancora intorno a quel tavolo in mezzo all’enorme cucina, a raccontarci le novità; per lunghi momenti gli incontri si sono fatti sereni, e ho sentito strette di mano e docili abbracci restituirmi un po’ di vita, ritessere almeno per un breve tratto la trama di una storia che non era ancora finita.
Vorrei dire grazie a tutti, ma qui nel bel mezzo della cerimonia sarebbe inopportuno; aspetterò che finisca, poi devo proprio prendermi il tempo e andare a salutarli uno ad uno, figli, amici, fratelli, nipoti e pronipoti, almeno per dire loro il mio grazie per aver ricamato insieme a me un pezzo della mia tela, chi con grandi figure colorate, chi anche solo con un piccolo fiorellino, ugualmente importante.
Il coro intona l’ultimo canto, l’incenso sale e porta i pensieri in alto. I nipoti più grandi si alzano per portar fuori la cassa di legno lucido; alcuni piangono, qualcuno ha un sorriso dolce di nostalgia.
Una mano leggera mi tocca la spalla. Mi giro, è una vecchia amica che se ne è andata tre anni fa.
“Andiamo, è ora” mi dice, con sorriso così solare che mi pare fuori luogo.
“Ma devo salutare, un attimo!” sussurro, stizzita. La mia amica scrolla la testa, ma continua a sorridermi e mi prende sotto braccio.
“Avrai tutto il tempo per salutarli”, dice; “Tornerai come un alito sereno, e continuerai a ricamare con loro la tela della vostra unica storia. Sono tutte intrecciate tra loro le vite, non vedi? E ci sei, in tutte quante; il tuo filo le percorre tutte”.
Già. Guardali là, tutti i fili del mio ricamo; se ne escono in fila, muti ma sovraccarichi di emozioni e di vita.
La mia amica mi accompagna fuori quando la chiesa è ormai vuota; il lento corteo si è già sparpagliato nel piccolo cimitero.
A fianco del portone, tra i mazzi di fiori appoggiati, c’è un piccolo tavolino con le memorie, su cui è stampato un viso anziano ma sorridente, con gli occhi vivaci di un azzurro intenso, e la bocca stretta quasi a trattenere un riso leggero.
“Hanno scelto proprio una bella foto” dico, sottovoce.
“Già, sei proprio tu!” mi risponde lei, stringendomi il braccio.
Le sorrido, e mi lascio condurre; il passo è lieve, non c’è più la fatica nelle ginocchia che non mi reggevano, né il respiro affannato degli ultimi giorni. Mi sento aria, e il mio sguardo vola su tutti quelli che ho amato; passo vicino all’orecchio di ognuno e li saluto tutti, mentre un vento sottile vien su dalla valle e scompiglia i capelli, fa ondeggiare le fronde, sparge un fremito tra i petali, e fa girare i bambini dalla parte dove tramonta il sole.
Verrò a trovarvi, tutti quanti, come voi siete venuti a trovare me nelle ore più lente della mia vita. E tirerò un po’ il filo del nostro ricamo, ogni tanto, per aggiustare un punto, per sciogliere un nodo, per continuare a ricamare il mio piccolo fiore.
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L'INVITO
Claudia Paternoster
Secondo Premio 5° edizione Concorso Letterario "Ora ti racconto..."
Biblioteca di Cles, 16 settembre 2011
Guardai distrattamente fuori dalla porta a vetri. La segretaria gettò un’occhiata di traverso al portiere, che lasciò come sempre il plico della posta sulla sua scrivania. E, come sempre, non si scambiarono una parola. Il display sul muro segnava la data dell’undici luglio.
Era curioso come ogni giorno si ripetesse lo stesso rituale: persone che vivevano così vicine da sfiorarsi, ma completamente estranee fra loro. Ed io, al decimo piano di un palazzo moderno nel centro della città, nell’ultima porta in fondo alla sequenza anonima di uffici, ero un estraneo fra i tanti. Ma un estraneo differente, perché quando attraversavo l’angusto corridoio, illuminato dagli implacabili neon, tutti se ne accorgevano. Un cenno del capo, uno sguardo che si abbassava, parole che si smorzavano in un sussurro nell’angolo al distributore del caffè. Dall’alto della mia non trascurabile esperienza, li osservavo senza guardarli, e loro percepivano la mia presenza senza bisogno che la facessi notare.
Ero il capo, e come tutti i capi che si rispettino incutevo il giusto timore. Qualcuno mi odiava, altri forse mi ammiravano, ma a nessuno ero indifferente: e questa era una sensazione di sottile piacere che mi riempiva i polmoni, ogni mattina, come se fosse ossigeno, mentre senza salutare nessuno, percorrevo il corridoio saturo dall’aria malata del condizionatore.
Un leggero bussare sui vetri mi distolse dalle mie insignificanti riflessioni: sulla porta comparve la segretaria, gli occhiali abbassati sul naso, l’elegante abito dal colore sbiadito che si confondeva con l’arredamento. Fece due brevi passettini, allungò la mano inanellata e posò una pila ordinata di buste sull’angolo della mia scrivania, attenta come sempre a non invadere il mio sacro spazio lavorativo.
Risposi con un grugnito. Era il segnale convenuto per avvisarla che non era una delle mie giornate migliori. Si dileguò portandosi dietro il suo alone appena percettibile di violetta.
Finii di rispondere ad una e-mail urgente, controllai gli ultimi ordini, e solo più tardi mi decisi ad affrontare il plico della posta che mi aspettava sull’angolo del mio campo di battaglia. Alcune buste le riconoscevo da lontano: la carta secca e spigolosa dalla finestrella plastificata, che al tatto produceva uno sgradevole rumore, proveniva dalla banca. Avvisi, rendiconti, movimenti, file di numeri e parole aride che racchiudevano un indiscusso potere. E quella busta voluminosa, bianco ghiaccio, dalla carta spessa come per garantire una segreta privacy, era dell’avvocato. Altre buste anonime, fatture, richieste di preventivi, qualche raro e insipido curriculum, e infide pubblicità che sfuggivano al vaglio della segretaria, ben nascoste in buste patinate dall’aria insospettabile.
Guardai il plico delle lettere perfettamente accatastate, secondo il gusto maniacale della mia impiegata, sapendo esattamente cosa contenevano. Tuttavia notai una busta sporgente che era sfacciatamente uscita dalla forzata simmetria in cui giacevano le altre, come per dimostrarmi che forse non tutto era sotto il mio controllo. Una busta dalle dimensioni modeste, di carta morbida e consistente, dai bordi slabbrati, di una tonalità fastidiosamente giallastra.
Non so perché, ma quella lettera mi irritò. Afferrai il plico e pensai ad altro, aprendo pazientemente le varie buste e indagandone senza troppa attenzione il contenuto: tutto come previsto.
Lasciai la busta ingiallita per ultima. Aveva un colore invecchiato, con una sfumatura leggermente bruna verso l’esterno degli spigoli, come se avesse atteso tanto tempo su un qualche scaffale dimenticato. La presi fra le dita: sentii sui polpastrelli una consistenza polverosa. La avvicinai alle narici e un odore stantio si mescolò alla dolciastra scia viola dell’impiegata. Inforcai gli occhiali e la osservai da vicino.
Sul verso era scritto il mio nome, in una calligrafia antica, sinuosa e obliqua, che si era concessa il vezzo di qualche ingombrante svolazzo per vergare le mie iniziali. L’inchiostro era nero, ma digradava in un blu cupo là dove il segno si faceva più sottile, un attimo prima dello staccarsi del pennino dalla carta.
Non so perché, ma leggere il mio nome in quella scrittura che pareva venire dal passato, senza i rassicuranti caratteri generici di un qualsiasi computer, mi inquietò.
Il timbro delle poste sbiadiva in alto, quasi illeggibile, confondendosi con il disegno del francobollo che raffigurava una coppia di piccoli puledri. Anche il bollo sembrava indefinitamente obsoleto. Sul retro non era indicato nessun mittente.
Senza saperne il motivo, temevo di aprirla. la curiosità mi spingeva a strapparne freneticamente il bordo superiore, eppure nello stesso tempo assaporavo il gusto di quel piccolo mistero imprevisto che si era insinuato in una giornata uguale alle altre, come un foglio appoggiato di sbieco sopra la lunga fila ordinatamente impilata dei miei giorni.
Alzai lo sguardo e incrociai gli occhi del ragioniere che mi fissava imbambolato oltre la porta a vetri. Fu solo un attimo, il tempo di voltarsi verso la scrivania e consegnare una cartellina all’impiegata, per poi sparire in una delle tante porte lungo il corridoio. Mi sentii uno stupido, come se il ragioniere mi avesse colto in flagrante a compiere qualche gesto infantile. Recuperai immediatamente la mia espressione accigliata e severa, drizzandomi sulla poltrona. Con fare noncurante aprii la busta, infilandovi il tagliacarte argentato. La carta si strappò senza un lamento, in un sussurro ovattato. Estrassi deciso il contenuto: era un biglietto, dello stesso materiale di cui era composta la busta, scritto con la stessa calligrafia svolazzante con cui era vergato l’indirizzo.
Al centro del cartoncino, in inchiostro nero, c’erano solo due parole:
Ti aspetto.
Nessuna firma, nessun nome o recapito. Girai innervosito il biglietto, ma il suo silenzio, il suo spazio desolatamente vuoto mi fecero fremere di rabbia. Cos’era, uno scherzo? Trassi un respiro affannato; era come se l’assoluta mancanza di risposte mi togliesse l’ossigeno di cui mi nutrivo. Non c’era alcun motivo, né alcuna spiegazione; e questo mi toglieva la terra sotto i piedi.
Indagai con maggiore attenzione il timbro, cercando di decifrarne le lettere che componevano il luogo di provenienza e la data: riconobbi una M lungo il bordo rotondo marchiato sopra il francobollo. Avvicinai la busta agli occhi: tolsi gli occhiali, e l’inchiostro blu del timbro si definì meglio sulla carta.
“Emme… A…” mormorai; ma non riuscii a dire altro, perché nella mente si ricompose il nome di un luogo che avevo dimenticato. Era il nome di un piccolo paese, che ritornava a galla dopo chissà quanti anni, e trascinava con sé frantumi di ricordi nascosti sotto tonnellate di giorni scordati. Rigirai la busta fra le mani, come per accertarmi di aver letto bene, poi la mia attenzione si concentrò sulle cifre al centro del timbro; emersero anch’esse come da una nebbia fitta, e divennero improvvisamente chiare: 12.07.58.
Il mio cuore ebbe un sussulto, anche se con il mio solito autocontrollo evitai di saltare sulla poltrona: la data coincideva con un mio lontanissimo compleanno. Erano passati cinquantadue anni.
La mancanza di appigli con qualunque spiegazione logica mi fece tremendamente innervosire: gettai con stizza la busta sul fondo di un cassetto della scrivania, ed evitai di pensarci per il resto della giornata. L’inizio non era stato promettente: come previsto, non sarebbe stato un giorno entusiasmante.
Il quadratino rosso con la parola spegni lampeggiava sullo schermo sotto i miei occhi distratti; cliccai sul mouse senza troppo entusiasmo. Finire una giornata di lavoro era come schiacciare il tasto spegni su gran parte del mio cervello: si scollegavano all’improvviso milioni di connessioni che per dieci ore ininterrotte erano state la linfa di ogni mia azione.
Attendere. Disconnessione in corso. La scritta vibrava ancora per qualche secondo sullo sfondo blu dei miei pensieri, poi in un rumore di risucchio metallico si oscurava la schermata e rimaneva un’opacità grigia stesa su un ennesimo giorno. Di solito mi ci voleva qualche secondo per riprendermi; ma, quella sera, avevo tenuto lontano dalla mia mente ogni possibile riflessione per così tanto tempo che l’immagine di quella busta sbiadita riempì in un attimo il grigiore che avevo davanti.
Gli uffici erano vuoti, il corridoio spento. Guardai il cassetto chiuso, e tutte le domande che si erano accatastate in un angolo lungo la giornata mi franarono addosso contemporaneamente. Da quanti anni non sentivo nominare il nome di quel luogo stampigliato nel timbro? Cocci di ricordi cominciarono a lacerare la patina cinerea e uniforme che mi copriva: c’era una stradina in salita, bianca di sassi, cocente sotto il tardo sole estivo, sentivo le pietre sotto le suole sottili delle scarpe. E una fontana ampia, dal bordo irraggiungibile, in cui gorgogliava un’acqua desiderata come nient’altro al mondo; con le mani sudate mi arrampicavo, afferravo la canna di ferro, umida e gelata, e buttavo la faccia sotto l’impeto degli spruzzi trasparenti. Via la polvere, via i pensieri cattivi, il getto d’acqua mi impregnava i capelli che gocciolavano sulla fronte, e mi inzuppava la manica della camicia. Oltre la stradina, una casa alta, con poche finestre e stanze fresche, scale scricchiolanti e un solaio carico di segreti e di raggi obliqui brulicanti nel tepore del fieno.
Aprii gli occhi. I ricordi mi scesero nello stomaco gelidi, come l’acqua di quella fontana di tanti anni prima. Mentre aprivo il cassetto e afferravo nervosamente la vecchia busta, le immagini si aggrovigliarono nel petto e rammentai all’improvviso che quel giorno, il dodici luglio del cinquantotto, qualcuno mi stava aspettando. In preda ad un’inconsueta urgenza presi un foglio bianco dalla stampante, scrissi una rapida lista di consegne per la segretaria ed uscii dalla porta a vetri del mio ufficio, abbandonando sulla scrivania dell’impiegata il lavoro del giorno dopo, alleggerito dal peso della mia ingombrante e scomoda presenza.
Digitai il nome del paese sul tastierino del navigatore. Ero già in autostrada da un’ora, l’alba aveva da poco strappato al buio una striscia viola pallido che dilagava sull’orizzonte. “Destinazione inesistente” disse la vocina femminile e odiosamente gentile del navigatore; con un gesto eccessivo lo spensi. “Quel posto è talmente piccolo che non c’è nemmeno sulle carte… ma mi ricordo benissimo la strada per arrivarci” pensai, sfidando la mia memoria intasata da decenni di altri luoghi.
Guidai per ore. Il telefonino vibrava in continuazione, e il riquadro luminoso sul sedile vuoto lampeggiava inesorabile, aggiungendo all’elenco un’ennesima chiamata non risposta. Ma io non c’ero. Non c’ero per nessuno. Lungo tutto il viaggio fui assalito da un’onda continua e incontrollata di ricordi, dapprima leggera e piacevole, come una brezza che ti scorre discreta sulla pelle, poi sempre più invadente e pesante, mentre procedeva a ritroso nel tempo. Le immagini scorrevano sempre più rapide, caricandosi di suoni e parole, colori e profumi, dettagli insignificanti che si ingrandivano a dismisura. Mi sentivo ubriaco di memoria, in preda ad una colossale sbronza di emozioni, e negli attimi di lucidità, su un sorpasso azzardato o nei rallentamenti ad un casello, mi chiedevo se tutti i ricordi che stavano affollando il mio cuore appartenessero davvero a me, tanto erano scollegati e mutevoli, o fossero frutto di un’insana immaginazione. Eppure in ognuno di essi scorgevo un frammento che mi tornava familiare: un orologio al polso che io stesso avevo comprato, un sapore che a me solo diceva qualcosa, una voce lontana che chiamava proprio il mio nome. Ma erano solo frammenti: disordinati, scomposti e muti ritagli. Era come guardare uno specchio caduto in frantumi, e sarebbe stato impossibile rivedervi la mia immagine intatta.
Faticai a trovare la strada. Avevo raggiunto senza problemi l’imbocco della valle, dopo quasi tre ore di autostrada, ma poi l’ubriacatura di ricordi si fece sentire e ne pagai le conseguenze: le strade che mi sembrava di conoscere non erano più al loro posto. Non so quante volte mi fermai a chiedere indicazioni, anche se era una cosa che odiavo. Mi vidi come il classico turista cittadino impreparato, saccente, che anche quando abbassa il finestrino ti guarda dall’alto. Un paio di volte mi sentii in dovere di giustificarmi, “Devo raggiungere il paese per lavoro” dicevo al passante indifferente, ma era come se tentassi di legittimare a me stesso un viaggio così assurdo.
Non fu affatto facile. Molti non sapevano di cosa parlassi, solo un anziano che aveva superato gli ottanta mi indicò esattamente come arrivarci. Ma quando finalmente passai il cartello con il nome che cercavo, con le gomme che grattavano sull’asfalto in mezzo a vecchi casoni e qualche villetta recente, mi resi conto che tutto era cambiato. Rallentai, era passato mezzogiorno da un bel po’. Accostai su una salita. Mi si presentò davanti un incrocio, un cortile recintato, vasi rettangolari di gerani incolti. Infilai la busta ingiallita nella tasca della giacca, scesi dall’auto, feci scattare la serratura con un fischio aspro e mi guardai intorno: non c’era niente che riconoscessi, non un cordolo di marciapiede, non uno stipite di finestra, non uno spigolo di muro. Niente nella mia memoria che si collegasse a quei ritagli sparpagliati di ricordi che mi erano piovuti addosso per tutto il viaggio. Alzai gli occhi: il profilo verde scuro della montagna di fronte mi rassicurò. “Quella c’era…” pensai. Poi, allontanando lo sguardo, l’attenzione mi cadde sull’insegna ordinata di un ristorante, incorniciata in un bordo riccioluto di ferro battuto. “Ma quello no che non c’era…” mormorai sottovoce, ed ebbi improvvisamente fame. Mi incamminai lungo la salita e raggiunsi l’ingresso del locale, notando lungo il percorso, solo di sfuggita, un cancello arrugginito alla mia destra, una ripida stradicciola che saliva a sinistra fra due muri di case, e un pollaio vuoto tra reti a maglie esagonali.
Consumai un piatto locale a base di patate e salumi accompagnato da un robusto vino rosso, e scambiai qualche parola con i gestori. Non erano del posto, ma quando chiesi loro dove avrei potuto trovare una grande fontana, i due si misero a discutere, dicendomi che le fontane del paese erano tre, o forse quattro, ma più probabilmente cinque. Con ampi gesti l’uomo mi descrisse un percorso intricato che scendeva verso la chiesa, mentre la donna interveniva continuamente a correggere l’itinerario, con abbondante aggiunta di particolari e insistenti dinieghi. Uscii dal locale più confuso di prima, annebbiato forse dal vino, e mi chiesi perché ero arrivato fino là, se nemmeno sapevo dove andare. L’unico riferimento che si stagliava nella mia memoria, ingombra di ricordi accumulati alla rinfusa, era una fontana quadrangolare, ma anche quell’immagine ora si sovrapponeva a mille altre. Che cosa stavo facendo? Presi la busta, la aprii titubante, e vi scoprii di nuovo le stesse parole: Ti aspetto. Lo stomaco mi si chiuse, e percepii un velo di freddo scendermi sulla fronte. Non aveva senso. Mi sentivo esattamente come il giorno prima: stordito, senza alcun appiglio razionale, perduto. Un’improvvisa fretta mi colse: avevo lasciato il telefonino sul sedile della macchina, ed ora chissà quante persone mi stavano cercando impazienti. Dovevo tornare alla realtà, dovevo rientrare. Il viaggio era stato inutile: in mezzo a tutto il ciarpame polveroso dei miei ricordi niente era emerso con chiarezza tanto da farmi rintracciare una qualsiasi spiegazione.
Si era fatto pomeriggio, il sole allungava placido le ombre sui prati che sbiadivano a valle. Mi avviai verso l’automobile deciso ad andarmene, ma gettando lo sguardo disattento ai lati della strada mi avvidi subito che qualcosa non andava. E’ vero, avevo bevuto un po’, ma ricordavo benissimo di aver scorto un cancello, dipinto con vernice verde e scrostato dalla ruggine e dal tempo. Il cancello non c’era più. O meglio, non era più lì, non si trovava più dove io l’avevo visto. Mi voltai istintivamente a destra, e dove prima avevo intravisto il vecchio pollaio, ora c’era un giardinetto occultato da una barriera disordinata di dalie dalle sfumature cangianti. Una strana ansia mi afferrò il petto. Allungai lo sguardo giù, verso la discesa: non c’era nessuna macchina parcheggiata di lato. “Che stupido!” borbottai. Sicuramente, all’uscita del ristorante, senza avvedermene avevo imboccato una stradina parallela; non restava che ritornare indietro e scendere dalla parte giusta. Ma anche questo espediente mi lasciò interdetto: appena raggiunto il locale, mi resi conto che da lì si dipartivano tre strade, mentre ero quasi certo che al mio arrivo ve ne fosse soltanto una. Il gestore era sulla porta. Mi sorrise, annuendo, a braccia conserte. Io ero troppo stizzito per essere cortese, e gli voltai le spalle, rabbuiato: a passo deciso scesi il vicolo a sinistra, che si stringeva fra le case. Capii subito che non era quella la via giusta, ma non volevo mostrare all’uomo del ristorante che mi ero perso. Avrei trovato una deviazione, prima o poi. Mentre scendevo però, l’intrico di stradicciole si fece più tortuoso, ed ogni volta che decidevo di prendere una direzione, le vecchie case mi si sbarravano davanti e mi costringevano a prendere un itinerario obbligato in senso opposto. Il cuore cominciò a battere in modo inconsulto: ero stanco, offuscato dai postumi di una specie di sbornia, innervosito da questa mia assoluta perdita di controllo. Trovandomi di fronte all’ennesimo anonimo muro, mi sentii sconfitto. Per la prima volta, percepii il numero enorme dei miei anni, accumulati sulla schiena come macigni che uno alla volta andavano ad appesantire sempre di più la gerla della mia vita. Che cosa avevo concluso, in tutto quel tempo? Che cosa avevo costruito? Un lavoro prestigioso, un’impresa finanziaria degna di nota, il rispetto di banche e assicurazioni, l’onore di inviti influenti, e una sicurezza economica invidiabile. Ma chi mi aspettava, fra tutti loro? Chi mi conosceva davvero?
Le parole del biglietto mi balenarono davanti: Ti aspetto. Nessuno mi aspettava più, da tanto tempo. La mia vita era stata una rincorsa alle opportunità, alla perfezione, all’intransigenza, alle occasioni convenienti e alle persone da sfruttare. Tante facce sfuggenti scivolavano nei miei ricordi, ma nessun volto occupava quello specchio in frantumi che era la mia esistenza.
Cominciai a camminare senza più meta, senza più badare a dove fossi. Il paese era talmente piccolo; prima o poi avrei intravisto la mia auto, la mia rassicurante via di fuga, l’avrei infine trovata dopo file di muri scrostati, finestrelle dalle inferriate strette, reti allentate di orti, portoni spalancati come bocche vuote, muretti a secco di pietre sbrecciate. Continuavo a vagare a caso, lasciando che fosse il paese stesso a condurmi dove voleva: e come in un labirinto dal percorso obbligato, mi fece svoltare lungo una scaletta di pietra che saliva, poi mi costrinse a scendere lungo un sentierino che costeggiava la staccionata di un giardinetto. Attraversai una piazzetta, mi infilai in un portone, sbucai in un cortile, risalii su un selciato, finché riconobbi sotto le suole sottili delle scarpe le pietre pungenti della stradina. Alzai gli occhi, e finalmente la vidi. Era davanti a me, costruita in pietra grigia, segnata da colature verdastre, l’acqua che usciva dalla canna di ferro piegata e infissa ad un comune pilastrino. Erano passati cinquantadue anni: ma la fontana non si era dimenticata di me.
Era stato l’intero paese a condurmi là. Tutti i vecchi edifici mi aspettavano, da tanto tempo, tutte le stradine e gli orti e i vicoli ombrosi. Il cuore smise di correre: voltai lo sguardo e trovai la vecchia casa a due piani, bucata da poche finestre, il solaio che lasciava intravedere, attraverso l’assito irregolare, pezzi di un cielo che si andava imbrunendo. La mia auto era lì, addormentata e tranquilla, parcheggiata ai piedi dell’edificio. I ricordi si dipanarono improvvisamente, concentrandosi su un unico, lontanissimo giorno. Mi precipitai nell’androne della casa. Superato il buio locale voltato, si apriva un piccolo cortiletto con una scala di legno che conduceva ai piani superiori. La voce di una bambina mi risuonò nella testa.
“Fai piano sulle scale, che i nonni riposano. Anche se domani devi tornare dalla tua mamma, ricordati di me quando verrai il prossimo anno: per il tuo compleanno preparerò un regalo che non ti immagini… è una cosa speciale, ti servirà per trovare il tesoro che abbiamo cercato tanto… E’ nel posto più segreto dei segreti, il posto che sappiamo solo io e te. Così un altr’anno, il giorno del tuo compleanno, saprai dove trovarmi. Ti aspetto, eh!”
L’ombra sfuggente di una ragazzina parve attraversare il cortile, e sparì dietro l’angolo dove un tempo cresceva il ciliegio. Un brivido mi attraversò la schiena; si stava facendo sera. Guardai le finestre della vecchia casa: erano tutte chiuse da tempo.
Come avevo fatto a dimenticarmi di lei? Certo, Marta aveva solo otto anni, ma avevamo trascorso insieme un’estate incredibile, complici di impensabili malefatte e di avventure inenarrabili. Conoscevamo ogni anfratto, ogni vicolo, ogni muricciolo, scaletta, cunicolo, scorciatoia di quel paesino. Scappavo al mattino dalla pensioncina dove ero alloggiato con mio padre e raggiungevo la casa dei nonni di Marta: ed ogni giornata si colorava di boschi muscosi e sentieri impervi, di prati dall’erba folta dove facevamo impazzire cavallette e formicai, di rivoli sassosi che schiumavano in nascondigli di ranelle e salamandre.
I ricordi ritornarono a stiparmi la memoria, ma stavolta ordinati, limpidi e freschi come l’acqua della fontana che ci spruzzavamo a vicenda, come il sentore delle stanze chiuse dalle spesse persiane, come le ramaglie degli abeti gocciolanti di pioggia sotto cui ci nascondevamo.
Tornai nell’avvolto: a destra si arrampicava una scala interna, in legno, che raggiungeva il solaio. Era il posto “più segreto dei segreti”, dove ci eravamo scambiati tesori e confidenze di bambini. Salii quasi correndo; l’odore soffocante del fieno mi penetrò nelle narici e, quando fui in cima, mi tolse il fiato. Mi accasciai nella paglia polverosa, sdraiandomi a braccia aperte; sentivo le pagliuzze piantarsi nella stoffa dei vestiti e pungermi la pelle, vedevo l’ultimo chiarore serale entrare a fasci tra le assi e attraversare di sbieco lo spazio del solaio, amplificato dall’ombra che avanzava. Riconoscevo ogni nervatura sul legno, ogni scricchiolio del pavimento, ogni granello di pulviscolo che respiravo.
“Ce ne hai messo di tempo” disse Marta, seduta su una vecchia seggiola nella penombra del fienile. Mi alzai sui gomiti, di scatto: gli anni non avevano spento il brillio che aveva negli occhi, e ritrovai le stesse mani sottili, la piega alta degli zigomi, i capelli un po’ ribelli raccolti in fretta. La luce fioca del crepuscolo la faceva sembrare bellissima, e forse lo era: non riuscii ad alzarmi, mi avvicinai strisciando sulla paglia, senza il coraggio di guardarla in viso. Raggiunsi la sua mano che si allungava davanti a me. “Auguri” mi disse, e sorridendo mi porse una vecchia scatolina di cartone. La aprii con le mani tremanti, senza capire dove finisse il sogno e dove cominciasse la realtà, e vi trovai una piccola bussola rotonda, dalla cassa bombata e il vetro spesso, con l’ago verniciato in rosso vermiglio che vibrava incerto verso di lei. “Ti servirà per trovare il tuo tesoro, ricordi? Buon compleanno”. Le presi la mano, lei la posò sul mio viso come la carezza che non avevo mai ricevuto, e piansi.
Poi non ricordo più che cosa accadde. Scese un buio consistente, l’aria si fece densa e sugli occhi mi cadde un sonno irresistibile e piacevole, come quello dei bambini di ritorno da una gita; sognai di correre nel campo assolato che si apriva sotto il cortile, e di arrampicarmi sul carro del fieno, allungando la mano per aiutarla a salire con me, rotolando in un viaggio di risa inconsulte e scossoni, sdraiati sulla paglia a guardar scorrere il cielo.
Aprii gli occhi nel baluginare accecante della luce di luglio. La polvere disegnava nell’aria nastri brulicanti al sole, e mi ritrovai raggomitolato come un bambino, sporco di paglia e terra, avvolto dal ronzio di qualche insetto, la nuca bagnata di sudore. Mi alzai dolorante, frastornato: davanti a me stava una seggiola di legno, vuota. In mano stringevo qualcosa: aprii le dita e vi ritrovai la piccola bussola dalla cassa di metallo, incisa finemente lungo il bordo. Mi sistemai come potei, scrollandomi di dosso i frammenti di pagliericcio; tolsi la giacca sbattendola nell’aria e alzando una nuvola di pulviscolo dorato. Scesi in fretta le scale, ma quando fui nel cortile osservai la bussola mentre l’ago indicava la casa.
Sapevo dove erano le chiavi. Frugai in un foro tra le fughe delle pietre, lungo il muro del sottoscala: la piccola Marta mi aveva svelato il segreto di come faceva a rientrare senza che nessuno se ne accorgesse. Salii la rampa della scala di legno, e mi ritrovai davanti alla porta di ingresso dove era appeso il cartello arancione di un’agenzia immobiliare, con la scritta “VENDESI” a caratteri cubitali. Infilai la chiave nella toppa, ed entrai. Quella era stata, per un’intera estate di cinquantadue anni prima, la mia casa. Tutto era in ordine; ogni oggetto era nel posto in cui doveva essere, e riconoscevo le maniglie, i chiodi sulle pareti, i davanzali delle finestre socchiuse, i pomelli dei cassetti. Era stata lei stessa a mandarmi quell’invito: era stata quella casa ad aspettarmi.
E sarebbe diventata la mia casa. Sapevo che Marta sarebbe tornata, prima o poi: anch’io ora avevo qualcuno da aspettare, e lei lo sapeva. La piccola bussola si mosse, ne seguii la direzione; capii dove mi stava portando. Attraversai la cucina dalle pareti verde pallido, la stufa con la piastra a cerchi che emanava ancora il profumo di legna bruciata. Entrai nel vecchio salotto: aprii un cassetto della credenza dai vetri ambrati, trovai le buste ingiallite e un vecchio pennino con la sua boccetta d’inchiostro. Presi un cartoncino e mi accomodai sullo scrittoio davanti alla finestra chiusa: dalle persiane accostate entrava una luce soffusa, morbida e dolce. Sorrisi; tutti gli anni che avevo trascorso rincorrendo qualcosa si fermarono accanto a me, e si sedettero tranquilli nella penombra, senza più alcun peso. Posai la bussola sul tavolino, mi girai d’istinto verso la direzione vibrante dell’ago e vidi me stesso riflesso in uno specchio sulla parete, invecchiato nei capelli grigi ma sereno come non mi ero visto mai. Mi guardai ridere, poi intinsi il pennino nell’inchiostro blu e osservai la mia mano mentre, graffiando incerta la carta, scriveva:
Ti aspetto anch’io.
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LA BAMBINA NEL CASSETTO
Claudia Paternoster
presentato al concorso "Storie di donne", Arco 2011
presentato al concorso "Storie di donne", Arco 2011
Non riesco nemmeno a guardare fuori stamattina. La periferia mi appare più squallida del solito, mentre il tram l’attraversa sferragliando; ovvio, è lunedì, che vuoi pretendere? C’è un odore stantio di riscaldamento elettrico e di umanità, di giubbotti intrisi di polvere quotidiana e di sonnolenza. Mi mescolo anch’io tra questi odori, perdendo il mio, chiudendomi in una tristezza che non ha ragione d’esistere; ma ritengo che il grigiore mattutino, specialmente nel mese di novembre, spalmato sulla città che si sta svegliando stancamente, non aiuti i pensieri positivi. Mi striscia un cappotto accanto, sfiora il mio polpaccio il passaggio di membra stipate, barcollanti nel rallentare delle stazioni; ma io non guardo, non sorrido, evito accuratamente di impigliarmi tra occhi estranei o gesti convenzionali di circostanza.
L’I-pod è scarico; che noia! In certe mattine spararmi la musica nelle orecchie è l’unica cosa che mi salva dalla consapevolezza di appartenere anch’io a questa mandria umana che disprezzo. E invece stamattina niente, non si accende l’imbecille, e mi lascia qui a galleggiare in questi rumori viscidi e insopportabili. Ma forse è meglio così; fuori è talmente scuro che le canzoni che ascolto finiscono con il diventare la colonna sonora dei lampioni smorti che sfilano lungo la superstrada e dei capannoni anonimi che si allineano asfittici nella zona industriale, e non fanno altro che aumentarne il tedio.
Però la musica mi avrebbe aiutato a togliermi dalla testa la voce stridula di mia madre; chissà perché riesce a farmi la predica nei momenti sempre meno opportuni. Dev’essere un’abilità innata, un meccanismo che si sviluppa fin dalla gravidanza e che entra in scena solo quando le carezze di una mamma non bastano più a cancellare le incongruenze con i figli. Non sono più carne della tua carne, mamma. Sono un’altra cosa, che ti piaccia o no.
Il tram è strapieno, ma come per miracolo, fino ad ora, il posto davanti a me è rimasto vuoto. Ma i miracoli, si sa, non accadono in giorni come questi… Infatti arriva qualcuno. Già, proprio qui doveva infilarsi la bambinetta dal giaccone viola, con i capelli raccolti in due flosci codini e un ingombrante zainetto rosa. Che rottura. Lei si intromette tra i sedili stretti con lo zaino sulle spalle, mi striscia contro, si sbilancia, quasi mi cade addosso… sono costretta ad alzare gli occhi, ad inciampare nel suo sguardo impertinente e curioso, e mi sorride pure! Cos’avrà da sorridere poi, col freddo che fa fuori e la giornata schifosa che ci aspetta… Si sfila lo zaino con gesti impacciati, si incasina con le cinghie, lo appoggia con fatica a terra. Finalmente si siede. Ma non smette di guardarmi. Con un gesto nervoso tiro su il cappuccio del giubbotto e ci sprofondo dentro, come per attutire l’invadenza di quegli occhietti insolenti, ma niente; lei mi opprime con il suo stupido sorriso stampato in faccia, mi costringe a girare lo sguardo altrove, togliendo spazio al mio già ristretto campo visivo. Il tram s’infila in un sottopassaggio, scorrono a tratti le strisciate dei neon, freddi lampi nel buio; non posso nemmeno guardare fuori.
È solo una stupida bambina. Non può condizionarmi così: io sono libera. “Ah sì? Vuoi sfidarmi, piccoletta?” penso. Vuoi la guerra, eh? Io ti distruggo con un’occhiata sola, ti fulmino, ti incenerisco, ti smorzo quel sorriso ottuso in un attimo. Vediamo se non la smetti, se non distogli in fretta gli occhi per non rimanere scottata; ah, non sai quanto veleno si può far passare da uno sguardo! Sono un’esperta, io; le mie occhiate gelide riescono a zittire mia madre, a scansare la prof di scienze, a schiantare quello stupido di quinta B… Aggredisci per primo, se non vuoi essere aggredito.
Così, faccio scivolare via il cappuccio e la guardo. Anzi, la fisso. Non ci trovo niente di interessante, mentre lei chissà perché mi squadra con gli occhi spalancati, come se non avesse mai visto un essere umano in vita sua, o come se, peggio ancora, mi conoscesse da una vita e mi rivedesse per la prima volta dopo chissà quanti anni. Però continua a sorridere. Mi chiedo che cosa ci fa una bambina delle elementari da sola, su un tram affollato, a quest’ora. Dove sarà sua madre? Nei miei occhi scende un’ombra sottile di preoccupazione, e il mio sguardo, impercettibilmente, cambia. Non voglio, lotto perché non accada, ma avverto che, contro la mia volontà, la mia fronte si spiana, gli angoli delle sopracciglia si abbassano, le palpebre si addolciscono. Rimango incastrata negli occhi stupiti della bambina: per quanto mi sforzi, non riesco a sfuggirle, e mi sento soffocare. Le sue pupille… hanno una strana venatura nocciola, sfumata nel verde spento che hanno le foglie quando seccano; un colore che ho già visto da qualche parte. È un colore che ho già visto mille volte; un colore che sbiadisce nel mio specchio ogni noioso mattino.
Una stretta mi afferra lo stomaco, sobbalzo sul sedile e strappo via lo sguardo dalla faccia della bambina. La piccola non sorride più. “Ah, finalmente sono riuscita a toglierti di dosso quel sorriso imbecille!” penso, accorgendomi che si è fatta seria. Ma non smette di fissarmi; annuisce, come per dire: “Hai visto? Ho vinto io”. Ed io, nello spegnersi del suo viso, sento i miei lineamenti contrarsi, e la mia bocca fremere come se non riuscissi a trattenermi; un fiotto di riso mi sale non so da dove, forse dai polmoni o dal ventre, non riesco a capire, non c’è proprio nulla da ridere, ma fatico a contenere una risata che devo frenare portandomi la mano sulla bocca. Mi ha contagiato, mi ha fatto ingoiare quel suo ingiustificato sorriso. Ne esce un suono strozzato, un’allegria che mi fa tremare le spalle e stringere gli occhi; ma la cosa più strana è che mi passa improvvisamente il freddo, come se tutti i muscoli del mio corpo si fossero per un momento distesi, perdendo la contrattura che mi porto dietro dal momento in cui mi alzo ogni mattina. La bambina si sporge verso di me. Il tram rallenta. “Ridevi di più quando eri con me” mi dice; “guarda che io ci sono ancora, non dimenticarmi”.
Tolgo la mano dal viso e mi sorprendo a sorridere. Un sorriso largo, che non so bloccare. Lei risponde con una risatina leggera; il tram si è fermato. Si alza, trascina il suo zaino tra i sedili, mi fa “ciao” con la mano. I miei occhi la seguono mentre si carica lo zainetto sulle spalle. La saluto allo stesso modo. Non so perché, non è da me; ma, accidenti, quella bambina ha i miei occhi, uguali uguali. Intuisco un legame che esiste e non posso farci niente; c’è e basta, anche se io mi ostinassi a negarlo. Le butto un’ultima occhiata, prima che scompaia tra i cappotti; noto che al polso porta un braccialetto, una esigua catenina d’argento con un ciondolo a forma di chiave e una piccola pietruzza azzurra al centro. Possibile?
Quel braccialetto era mio. Lo ricordo bene, avevo sette anni. Me l’aveva regalato mia madre, l’ultimo giorno di scuola, perché l’anno era andato bene. Per la prima volta provo un dolore al cuore.
Non è proprio una sofferenza, ma è come uno strappo, una lacerazione, una falla che fa defluire un vivo calore verso le parti periferiche del corpo, e mi afferra in una confusa vertigine. Che mi sta succedendo? È così che ci si sente, prima di morire? “Non è poi così male…” rifletto. Dov’è finito, poi quel bracciale? L’ho perso, l’ho dato a qualcuno, l’ho buttato? Mi sforzo di ricordare; avevo un cassettino di una vecchia scrivania pieno di cianfrusaglie, gli oggetti più inutili e disparati, ma quanto mi erano preziosi… Dev’essere ancora lì, nello stesso posto, in mezzo a tre finte medaglie, una penna che scrive violetto, due portachiavi con un leone e una giraffa di stoffa, una catenella dorata, un minuscolo coniglietto di plastica, il biglietto di un mio primo cinema, due orecchini smaltati, un disegno spiegazzato della mia migliore amica, una dozzina di cartoline del mare, una macchinina di metallo pieno, tre tessere scadute di un qualche negozio, una gomma che profuma di mughetto, un segnalibro di cartone, qualche vecchia fototessera, un piccolo gufo di legno, due biglie di vetro, una scatolina di terracotta vuota, una pallina che rimbalza ovunque, e un orologio da polso, ormai rotto, con il cinturino rosso; forse l’inventario non è completo, ma il braccialetto è ancora lì. Devo cercarlo, trovarlo, recuperarlo, controllare se c’è. Da quanto tempo l’avevo dimenticato? Non sono passati poi così tanti anni, eppure mi sembra una vita. Ma perché quella bambina ne aveva uno uguale al mio?
Guardo fuori. La periferia ha lasciato il posto alla città. Palazzi ordinari e strade intasate da code di auto continuano a sfilare. Frecce lampeggiano arancioni sull’asfalto, intermittenze rosse annunciano rallentamenti. Si mette a piovere; ci voleva anche questa… Il tram cigola e sferraglia; nella luce deprimente dei neon vedo le solite facce stanche, corpi barcollanti negli scossoni delle rotaie, e m’invade nuovamente l’aridità di un giorno uguale a cento altri. La mia espressione si spegne, la fronte si corruga e la bocca si incurva. Eccomi, sono tornata in me. Era ora.
Il tram decelera, guaisce nello stridere del metallo, frena piangendo. Eccola qui, la mia nuova solita giornata.
Martedì. Ieri sera neanche ho risposto a mia madre. È sceso il vuoto, non vale nemmeno più la pena di ribattere. Però ho ricaricato l’I-pod, ho bella e pronta la mia colonna sonora. Mi trascino sul primo vagone; di solito salgo sul penultimo, ma stamattina non ho voglia di fare brutti incontri, non si sa mai. Cambia solo qualche faccia, ma niente di che; eppure gli uomini sono bestie abitudinarie, e modificare il proprio posto sul tram può destabilizzare l’equilibrio della specie. Vengo sfiorata da qualche sguardo asciutto; me ne frego, sprofondo nel mio cappuccio imbottito e mi infilo gli auricolari per non ascoltare il dialogo untuoso di due signore sedute dietro di me. Fuori, niente di nuovo. Perlomeno oggi non piove, ma ogni mia giornata fa sempre in tempo a peggiorare. Curioso però; oggi anche nel primo vagone, quello dove generalmente sale più gente, c’è un posto vuoto di fronte a me. Ne approfitto; allungo le gambe, mi stiracchio. Ho sonno e decido di scivolare nel dormiveglia, chissà che non recuperi la notte inquieta che ho passato. Ma, come ho detto, in ogni mia giornata c’è un margine di peggioramento; una vecchia curva e tremolante avanza nel corridoio. Trascina una specie di borsa della spesa in tela cerata, a quadri beige, con tanto di maniglia e rotelle. Suvvia, qualche adulto sarà così gentile da lasciarle il posto. Ma niente. Razza strana, gli umani; dicono tanto dei giovani, che sono maleducati e insensibili, e guarda là, quel cafone con impermeabile valigetta e cravatta, fa improvvisamente finta di dormire. La vecchia passa oltre, sembra che sappia già dove andare… come non detto. Eccola che arriva.
Ha un giaccone marrone trapuntato, dal collo in finto pelo, ma le sta largo e da sotto ne esce una gonna scura con due gambe rinsecchite, calze da vecchia, scarpe da vecchia. Figurati, e dove vuoi che si sedesse? Scarrucola la sua borsa fin sulle mie scarpe, si appiattisce facendosi sottile e trasparente per non disturbare, ma non fa altro che innervosirmi ancora di più. Mi strappo stizzita gli auricolari dalle orecchie, mi scosto, ma non posso fare a meno di guardarla. Ha la pelle grigia e accartocciata; sulle mani che afferrano la maniglia di plastica pulsano rilievi verdastri. Distolgo lo sguardo, non voglio sapere oltre. Ma nel sedersi, la vecchia mi sfiora le ginocchia, ed io faccio uno scatto infastidito; i miei occhi tornano su quelle mani davanti a me, e dalla manica color castagna scivola fuori, sul braccio raggrinzito, un braccialetto sottile d’argento, con un piccolo ciondolo a forma di chiave. Al posto del foro che hanno di solito tutte le chiavi, vi è incastonata una pietra azzurra. Mi sento male.
Non può che essere una stupida coincidenza. Non riesco a trattenermi: spalanco gli occhi e alzo la faccia, piantandole addosso uno sguardo fin troppo eloquente. Lei, il viso solare sotto la rete di rughe, sorride. Negli occhi il colore spento ma delicato delle foglie secche, la venatura castana che diventa quasi dorata nella luce spietata dei neon. Non riesco a dire niente, né a staccare lo sguardo da lei. Probabilmente ho un’espressione piuttosto inebetita, a bocca aperta, ma la sua serenità mi spiazza e mi toglie il fiato. Mi afferra lo stesso dolore di ieri, che parte dal petto come da una spaccatura e allaga il corpo di calore.
Il tram frena. Ondeggio, in balia di quello che mi sembra una specie di sogno. La vecchina allarga il suo sorriso e mi contagia; succede come ieri. Le sorrido, impotente e disarmata; ma, senza sapere perché, sto bene. Il calore si diffonde, rinvigorisce i sensi, acuisce i pensieri. Non so cos’è, ma qualsiasi cosa sia voglio tenermela stretta.
Inaspettatamente, la donna comincia a parlarmi. “Ho avuto una vita felice” sussurra, “ma ho cominciato presto ad essere felice. Non ho aspettato che le cose belle accadessero; semplicemente, le ho scelte.” Si alza scricchiolando le ossa, con i movimenti lenti di rami mossi dal vento. “Ci incontreremo di nuovo, tra molto tempo. Ma decidi adesso quello che vuoi essere” dice. Sorride. Trasparente e leggera com’è arrivata, così si allontana.
Oggi non sembra mercoledì. Il mercoledì è un giorno neutro, solitamente insignificante. Ma oggi mi va di cambiare vagone. Perché sempre il penultimo? Oggi decido io. Il terzo, può andare. Stanotte ho dormito poco, ma stranamente non sono stanca. Ieri sera mi sono chiusa in camera e ho aperto il cassetto della vecchia scrivania inutilizzata da tempo, coperta da libri di scuola, qualche rivista e roba da stirare. C’era tutto quello che avevo messo nel mio inventario: il portachiavi con il pupazzetto a forma di leone, la penna viola, le cartoline, le biglie di vetro, l’orologio rotto. Ho tirato fuori le mie foto tessera sbiadite, e tra quelle più vecchie ho trovato la faccia sorridente della bambina dai codini flosci e dagli occhi venati di nocciola. Ho frugato in quel disordine con un filo d’ansia, dicendo a me stessa che non aveva alcuna importanza se non l’avessi trovato; ma quando l’ho tolto dal cassetto, sbrogliandolo dalle altre cianfrusaglie che vi si erano avvinghiate, e l’ho avuto tra le mani, ho provato di nuovo lo stesso dolce male al cuore. Ho preso il braccialetto e l’ho indossato, devo dire con una certa titubanza; sì, ho avuto paura. Non so di che. Di dovermi togliere questa faccia, suppongo. Di dover fare fatica per rendere oggi un po’ migliore, senza lasciare che per forza peggiori.
Mi è un po’ stretto, ma non penso che lo farò allargare; lo sento che mi stringe il polso, ma è come se qualcuno mi tenesse per mano. La piccola chiave è fresca sulla pelle, la guardo che dondola sul braccio, e mi pare sia il segno di qualcosa che forse ho ritrovato. Il posto davanti a me è vuoto, anche oggi. Ma non verrà nessuno a sedersi, perché il posto è occupato: ci sto io qui di fronte, e guardarmi non mi fa poi così paura.
Il viaggio è più breve del solito. Scendo. Tolgo gli auricolari, prendo il cellulare e chiamo. “Ciao mamma. Tutto bene?” Ho la voce strana, mia madre se ne accorge. “No, no,” continuo, “non c’è niente, va tutto bene. Volevo solo salutarti. …Sì, davvero, solo un saluto”. Dall’altro capo, silenzio. “Mamma… ci sei?” Arriva un sì stentato, colmo di una trattenuta meraviglia. “Ti ricordi quei biscotti con le mandorle che mi facevi quando ero piccola?” Ora la voce di mia madre arriva spezzata, non so se per la scarsa ricezione del cellulare o per qualche imprevista celata trepidazione. Mi dice che sì, se li ricorda, mi elenca gli ingredienti, mi chiede se ho voglia di riassaggiarli. “…Sì, sì… Mi piacerebbe…” dico. E rido. Mia madre fa silenzio, ma sento che sorride anche lei; “Ci vediamo stasera”, concludo.
Chiudo il telefono, allungo il passo. Mi sembra un giorno meno freddo del solito; forse l’inverno sta per finire. Un cane scodinzola sul marciapiede; un’anziana signora con il cappotto marrone cammina lenta verso di me, tenendo per mano una bambina con lo zainetto rosa. Le incrocio. Vorrei fermarle, dire loro qualcosa, ma mi sorridono tranquille e mi oltrepassano, parlottando tra di loro. Istintivamente getto lo sguardo sulle loro mani che si stringono: il braccialetto non c’è più, né sul braccino levigato e sottile della bambina, né sul polso raggrinzito e ingrigito dell’anziana.
Mi scappa da ridere. Forse mi sono immaginata tutto, forse ho sognato, del resto mi capita spesso di addormentarmi sul tram tra una fermata e l’altra; eppure penso che, se in qualche modo non le avessi incontrate, me ne starei ancora chiusa in quel cassetto. Mi allontano, pensando che forse questa sera, quando arriverò a casa, avrò qualcosa da raccontare. Mi giro per attraversare la strada e vedo in lontananza, discreta e ammiccante, la bambina dal giaccone viola che mi saluta con la mano.
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VITA
Claudia Paternoster
poesia segnalata al Concorso “IL VALORE DELLA VITA”
Castello Tesino - 9 ottobre 2010
Eppure la vita
è così piccola
così giovane, sempre
così semplice
è come acqua;
a volte la bevi, avido
fino a soffocare di lei
e a volte
ti scivola fra le dita
e senti solo
la sua freschezza, nelle mani
e forse non la guardi
mentre se ne va,
forse non capisci
e quando stringi il pugno
per fermarla
ti accorgi,
o forse non lo saprai mai
che era solo tua.
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